Il ricordo di Antonio Juliano oggi che l’ex centrocampista e dirigente del Napoli è venuto a mancare all’età di ottant’anni
«Lo ammiro tanto. So cosa significa essere il capitano del Napoli»: la frase è di Paolo Cannavaro ed è riferita ad Antonio Juliano, figura che rappresenta la storia del club, a lungo giocatore con più presenze, dirigente dalla competenza acclarata, grazie alla quale ha contribuito a portare alla città quella felicità che non era riuscito a raggiungere muovendosi sui campi da gioco. Oggi se n’è andato via un pezzo di storia, un centrocampista appartenente alla stirpe dei Mazzola, Rivera, De Sisti, Cordova, tutti «personaggi che definirli soltanto “piedi buoni” sembra essere un’offesa», secondo citazione dello scrittore Fernando Acitelli. «Un tipo tosto, persona autentica, con un temperamento da condottiero. Giocava un calcio concreto, senza concedere spazio alla teatralità. Un “napoletano atipico”, lo hanno definito, perché era il contrario dello stereotipo partenopeo»: l’ha descritto così Dino Zoff, suo compagno in azzurro, sia nella versione Napoli che in quella Nazionale. E proprio ripensando alla sua esperienza con l’Italia, emerge ancora di più questa sua caratteristica di uomo “ombra”, che non sta in prima fila.
Totonno si guadagna la convocazione da parte del Commissario Tecnico Ferruccio Valcareggi e gioca la prima finale dell’Europeo del 1968 contro la Jugoslavia. La sfida termina 1-1 e nella ripetizione lui sta in panchina. Nel momento della festa, fa i complimenti ai compagni, inserendo una considerazione personale: «Tutti bene, comunque è meglio essere in campo che stare a vedere». Due anni dopo, fa parte della nazionale messicana. Non gioca mai, se non quando entra in finale al posto di Berlino poco dopo che il Brasile ha allungato sul 3-1. C’è una bellissima intervista di Nando Martellini a fine gara, il cronista Rai lo invita esplicitamente a farsi avanti, «Non si nasconda», lui commenta: «La difficoltà è entrare a risultato già acquisito». Ce n’è anche un’altra, che ancora non può sapere: non essere convocato nel Mondiale successivo, quando se lo sarebbe totalmente meritato. Con la beffa dell’ultima gara appena dopo la spedizione tedesca, quando l’Italia va a Rotterdam a capirci poco del calcio olandese che sta facendo la rivoluzione.
In quella stagione, 1974-75, Juliano va vicino allo scudetto. Il Napoli perde 2-1 a Torino lo scontro diretto, non basta il suo gol del momentaneo pareggio, a condannarlo è il suo ex compagno di squadra José Altafini con un graffio nel finale. «Da giocatore mi chiedeva un sacco di soldi, da dirigente imparò a risparmiare»: recentemente l’ha ricordato così il suo presidente, Corrado Ferlaino. Insieme riescono nell’impresa di portare Diego Armando Maradona a Napoli nel 1984, Juliano ha smesso da non troppo tempo, dopo 17 anni di Napoli ha chiuso con una stagione a Bologna, ha fatto ciò che cercherà con Beppe Furino, appena sa che lascia la Juve va ad offrigli la maglia azzurra e un appendice di carriera che il capitano bianconero non si sente di accettare.
Non c’è bisogno dell’acquisto del Pibe de Oro per valutare quanta stoffa abbia il capitano diventato dirigente. Con la riapertura delle frontiere, il primo straniero che va ad acquistare è l’olandese Ruud Krol, un fuoriclasse cercato da diverse squadre italiane: Milan, Roma e Fiorentina. Perché abbia scelto Napoli lo ha raccontato lui stesso: «Io ero stufo dell’Ajax dopo 13 anni e così andai a Vancouver. Ma un giorno arriva Totò Juliano, dirigente azzurro, e mi dice “Ora puoi venire da noi, non parto senza di te”. Così parla col presidente del Vancouver e il giorno dopo mi porta a Napoli».
Quanto a Maradona, per capire cosa sia stata la febbre dell’attesa per il suo arrivo non c’è niente di meglio che vedere La mano di Dio, lo scandire dei momenti che precedono l’ufficialità, il rincorrersi delle voci. In un’intervista a La Gazzetta dello Sport, Paolo Sorrentino ha ricordato l’origine della sua passione calcistica: «La prima partita della mia vita l’ho vista con mio padre e giocava Juliano».