Jobs act: cosa cambia per i lavoratori

La riforma del lavoro promossa e messa in atto tra il 2014 e il 2015 dal governo Renzi, il Jobs Act, ha cambiato in modo significativo le carte in tavola per quanto riguarda le assunzioni e i contratti di lavoro. Nel bene o nel male, non spetta a noi decidere in tal senso, le modifiche ci sono state e i loro effetti, a un anno dall’approvazione del pacchetto di leggi, si fanno già sentire. Ma andiamo con ordine e partiamo dall’inizio: dalle assunzioni.

il Jobs Act di Matteo RenziSia per chi entra per la prima volta nel mondo del lavoro, sia per chi cambia occupazione,  stato difatti inserita una nuova tipologia contrattuale, quella “a tempo indeterminato a tutele crescenti”, sicuramente molto appetibile per le aziende, visti soprattutto la generosa decontribuzione, cioè lo sconto sui contributi sociali che il datore di lavoro deve pagare (fino a 8.000 euro per tre anni) e il cambio delle norme sul licenziamento. Cancellate invece le associazioni in partecipazione, il Job sharing e da quest’anno anche le collaborazioni a progetto.

Il nuovo assunto potrà subito iniziare a lavorare con dipendenti assunti col vecchio contratto a tempo indeterminato, avvalendosi degli stessi identici diritti riguardanti malattia, ferie e maternità. Sarà però differente il trattamento in caso di licenziamento: la persona assunta con il contratto a tutele crescenti avrà diritto al reintegro nel posto di lavoro solo nel caso di licenziamenti discriminatori o quando, nel caso di licenziamento disciplinare, il lavoratore dimostri al giudice che il motivo addotto dall’azienda sia insussistente. In tutti gli altri casi il lavoratore potrà solo avvalersi di un indennizzo economico pari a due mensilità di stipendio per ogni anno di servizio (con un minimo di 4 mensilità e un massimo di 24).

Novità per quanto riguarda il percorso che potrà assumere la carriera di un lavoratore. In caso di crisi aziendale o di necessità di riorganizzative, il datore di lavoro potrà infatti “ri-mansionare” il dipendente, scegliendo per lui una diversa mansione che non dovrà più essere “equivalente”, come prevedeva la legge precedente, ma semplicemente “riconducibile” alla precedente.

Si potrà scendere fino a un livello sotto l’inquadramento originario, ma lo stipendio resterà comunque lo stesso della precedente qualifica. Se il lavoratore è a part-time, il datore di lavoro può chiedere una prestazione supplementare ma di non più del 15% delle ore.

Previste nuove regole anche per ciò che concerne gli ammortizzatori. In caso di difficoltà dell’impresa, non sarà più possibile finire in cassa integrazione per lunghissimi periodi, né ricorrervi per le aziende che cessano l’attività. La durata del regime di cassa integrazione è adesso di 24 mesi. La riforma, che in questo caso si applica ai lavoratori vecchi e nuovi, prevede però anche un nuovo tipo di assegno di disoccupazione, un’indennità di 24 mesi per tutti i dipendenti che abbiano maturato 13 mesi di contribuzione in 4 anni. I disoccupati avranno diritto ad un assegno pari al 75% della retribuzione media degli ultimi 4 anni, ridotto poi del 3% al mese dopo il quarto mese.

Aumenta il tempo a disposizione per la famiglia in caso di congedi parentali: oltre all’astensione obbligatoria, è previsto il congedo pagato al 30% fino ai 6 anni del bambino (prima era 3 anni) e quello non retribuito fino ai 12 anni (prima 8 anni).

La parte più innovativa, ma anche più difficile da realizzare, è però quella che riguarda il tentativo di farsi carico di chi perde il lavoro. Nasce per questo il contratto di ricollocamento che prevede che il lavoratore divenuto disoccupato sia preso in carico da un ufficio del lavoro che ne tracci il profilo di occupabilità. Dopo la firma di un patto di attivazione, al lavoratore viene assegnato un voucher grazie al quale potrà usufruire di servizi di formazione e ricollocazione.

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